Se nasci donna nera nell’America della segregazione razziale, non puoi mangiare
liberamente in un ristorante, prendere i mezzi pubblici per andare al lavoro,
frequentare la scuola che vorresti, bere da una fontana se hai sete, vedere un
film al cinema, acquistare la casa dei tuoi sogni, neanche lontanamente pensare
di innamorarti di un uomo con il colore della pelle differente dal tuo.
Figuriamoci quindi sognare da ragazzina di diventare la prima concertista
classica di colore d’America: la bestemmia di una folle!
Tua
madre crede però nel tuo sogno, ti sostiene e anche per lei provi ad entrare in
una scuola in cui poter coltivare la tua passione, la
Ian Curtis , che puntualmente ti scarta e
non di certo per il tuo scarso talento. Cerchi allora una nuova strada, metti
da parte l’idea di diventare concertista classica, scelta che tua madre non ti
perdonerà mai, inizi a sperimentare nuovi generi, fondendo la tradizione gospel
con il jazz, il folk e il blues. Pubblichi il tuo primo album nel 1958, con
grandi successi come I Loves You, Porgy e
My baby just cares for me, ma non è
abbastanza. Essere discriminata due volte per l’essere donna e di colore
proprio non ti va giù, allora unisci alla musica la protesta sociale e fai della
tua voce la voce di milioni donne nella tua stessa condizione. Diventi un
simbolo della lotta contro la discriminazione razziale, come Martin Luther King
e Malcolm X, e le tue canzoni veri e propri inni civili, da cantare nelle marce
di protesta: Old Jim Crow, Mississippi Goddam. Nel 1966,
nell’album Wild is the wind,
racconti la tua storia e quella di altre donne come te in Four Women: quattro donne di colore, la prima mulatta, l’ultima
nera come il petrolio, e più la loro pelle diventa scura, più aumenta la loro
rabbia verso una società che le umilia ogni giorno.
“My
skin is black
My arms are long
My hair is wooly
My back is strong
Strong enough to take the pain
Its been inflicted again and again”
My arms are long
My hair is wooly
My back is strong
Strong enough to take the pain
Its been inflicted again and again”
Nel
1968 viene ucciso il reverendo King, dedichi a lui l’album ‘Nuff Said! e decidi di lasciare il
Paese che per anni ti ha umiliato, mentre all’estero ti acclamano come una
regina: la regina del soul! Giri il mondo, ovunque per te solo fiori e applausi,
mentre la tua America non ti perdona il fatto di averla abbandonata e boicotta
l’uscita dei tuoi album per quasi vent’anni, fino al 1989 e all’album Nina’s Back, che celebra il tuo ritorno
e ti riconosce il titolo di icona del jazz. Anni di lotte e di eccessi segnano
il corpo, oltre che la mente, e nel 2003 perdi la battaglia contro la malattia
nel tuo ritiro privato in Francia. Si narra che sir Paul McCartney abbia
mormorato durante uno show televisivo inglese: “Se solo Nina Simone fosse stato
un uomo…”. Se fossi stata un uomo, sicuramente
avresti dovuto lottare di meno, ma senza quel dolore che ti viene inflitto di
continuo e ti fortifica la schiena non saresti diventata un simbolo.
Soprattutto non saresti stata Nina, la regina del soul.
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